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   Gen 21

ARCO E FRECCE ALL’ORIGINE DELLA STORIA UMANA

La leggenda sull’origine del mondo secondo gli Apache venne narrata dal capo Chiricahua Goyaalè, alias Geronimo.

Nato nel 1829 e morto nel 1909, fu un rispettato sciamano ed esperto guerriero della tribù di Cochise, insediata nei territori tra le White Mountains (attuale Cochise County, New Mexico) e la valle del Rio Grande, che gli Apache contesero per almeno 70 anni alle truppe messicane e statunitensi. Soprannominato dal proprio popolo “il Sognatore” perché asseriva di essere in grado di vedere il futuro, divenne famoso per il suo coraggio e per essere sfuggito numerose volte alla cattura. Dopo la morte di Cochise, con un gruppo di irriducibili divenne l’ultimo grande leader che si rifiutò di riconoscere il governo degli Stati Uniti nel West. Lotta che terminò il 4 settembre 1886 a Skeleton Canyon nelle montagne dell’attuale Hidalgo County, New Mexico, non lontano dall’attuale città di Rodeo (1257 m.slm, poco più di una fermata della linea ferroviaria della El Paso and Southwestern Railroad, oggi dismessa). Deportato a Fort Pickens, Florida, con tutti gli Apache sopravvissuti alla tubercolosi, dopo una decina di anni venne trasferito a Fort Sill, Oklahoma. Qui visse in semilibertà ma senza il permesso di tornare sulle sue montagne, distanti circa 800 miglia. Negli ultimi anni della sua vita costituì una fenomenale fonte di informazioni sugli usi e costumi dei nativi del sud-ovest. Aveva 80 anni quando fu colpito da una polmonite che lo portò alla morte.

Gli Apache (dalla parola apachu che significa “nemico”) sono una popolazione nativa dell’area sud occidentale dell’America Settentrionale. Il nome con cui sono soliti designarsi è però “Dineh” (il popolo). Divisi in quattro bande principali, a loro volta composte da numerose bande locali, gli Apache erano un popolo nomade, dedito alla caccia e alla raccolta. L’agricoltura era poco sviluppata, e veniva coltivato soprattutto il granturco. L’abitazione degli Apache era costituita dal wickiup, una piccola capanna fatta di frasche, di forma semisferica. La dimensione e l’accuratezza della costruzione variava a seconda della maggiore o minore abbondanza di materie prime nel luogo scelto per l’accampamento. L’intelaiatura era costituita da un cerchio di pali o piccoli tronchi incurvati, legati al centro. Lo spazio veniva riempito con sterpaglia del deserto, o con erba e canne prese nei letti dei fiumi. In cima vi era un foro per far fuoriuscire il fumo. All’esterno venivano disposte delle tele per ridurre gli spifferi, mentre una pelle o un piccolo lembo di coperta serviva come porta. La costruzione del wickiup spettava esclusivamente alla donna e per costruirlo occorrevano circa quattro ore. Oltre a costruire le capanne, le donne Apache avevano un ruolo importante nella vita familiare: raccoglievano cibo, legna e acqua e intrecciavano canestri con eccezionale precisione. Abitualmente gli Apache vestivano con abiti di pelle di daino e portavano i capelli lunghi e sciolti, tenuti fermi da una benda allacciata intorno alla testa. Gli uomini indossavano un gonnellino aperto sui fianchi, e lunghe braghe d’inverno. Portavano alti mocassini allacciati sotto le ginocchia, poiché il terreno era coperto di rovi, boscaglia e cactus e pieni di serpenti. Gli Apache praticavano una religione magico-sciamanica tenendo in grande considerazione il culto degli antenati e degli spiriti. I guerrieri seguivano riti propiziatori e scaramantici sia alla loro prima campagna sia prima di ogni battaglia. All’origine della vita vi era il principio vitale detto Usen, la cui saggezza, giustizia e potenza erano incorporate nell’uccello totemico per eccellenza, l’aquila.

Alla fine del XVII sec. i gruppi Apache presero a integrare la loro tradizionale economia con razzie contro gli insediamenti spagnoli che seguivano le tracce dell’argento nelle gole delle Montagne Rocciose. Dopo la definitiva annessione agli Stati Uniti del Texas e la nascita del nuovo stato del New Mexico, gran parte degli Apache collaborarono con gli americani modificando in parte i loro costumi: lo stesso Cochise lavorò come taglialegna per una compagnia di trasporti su diligenza. A seguito delle ripetute violazioni da parte dei coloni, nel 1861 scattò la scintilla della rivolta, e i guerrieri di Cochise tornarono alla macchia ritirandosi progressivamente verso le Dragoon Mountains, dove nel settembre 1871 furono accerchiati e costretti alla resa. Un gruppo di irriducibili capeggiato dallo stesso Cochise e poi da Geronimo rifiutò la deportazione a Tularosa, New Mexico, distante circa 300 miglia dai luoghi nativi. Dopo 15 anni di guerriglia gli ultimi Apache, sopraffatti dalla difficoltà di vivere in territori scarsi di risorse e decimati dalle malattie, dovettero cedere le armi ed accettare la prigionia nei malsani campi della Florida. Dopo il 1895 ai sopravvissuti furono concessi alcuni territori (riserve) in New Mexico (White Mountains) e in Arizona, dove permane tuttora una popolazione di circa 25.000 unità. Poche centinaia di discendenti dei Chirichaua vivono ancora a Fort Still, che è oggi una importante base militare dell’U.S. Army. Pur nelle modificate condizioni economiche, gli attuali Apache conservano gran parte delle tradizioni e riti antichi: nello stemma delle varie tribù delle Riserve compare ancora l’arcobaleno e la sagoma delle Dragoon Mountains, e l’aquila rimane un animale sacro.

L’ORIGINE DEL MONDO

In principio il mondo era coperto di tenebre. Non c’era il sole, non c’era la luce del giorno. La notte perpetua non aveva né luna né stelle. C’era però ogni sorta di bestie e di uccelli. Tra le bestie c’erano molti mostri orrendi e senza nome, oltre a draghi, leoni, tigri, lupi, volpi, castori, conigli, scoiattoli, ratti, topi, e tutte le qualità di esseri striscianti come le lucertole e i serpenti. Il genere umano non poteva prosperare in queste condizioni, perché le bestie e i serpenti distruggevano tutta la prole dell’uomo. Ogni creatura aveva il dono della parola e era fornita di ragione. C’erano due tribù di creature: gli uccelli, ossia la tribù piumata, e le bestie. I primi erano organizzati sotto il loro capo, l’aquila. Queste tribù tenevano sovente consigli, e gli uccelli desideravano che si introducesse la luce. Ripetute volte le bestie rifiutarono di accettarla. Finalmente gli uccelli fecero guerra alle bestie.

Le bestie erano armate di bastoni, ma l’aquila aveva insegnato alla sua tribù l’uso dell’arco e delle frecce. I serpenti erano tanto astuti che non poterono essere uccisi tutti. Uno si rifugiò su una rupe scoscesa in una montagna dell’Arizona e il suo occhio (convertito in pietra brillante) può ancor oggi essere visto su quella roccia. Ciascuno degli orsi, quando era ucciso, si trasformava in molti altri orsi, cosicché, quanti più orsi la tribù dei pennuti uccideva, tanti più ce n’erano. Neppure il drago poteva essere ucciso, poiché era ricoperto di quattro strati di squame cornee che le frecce non riuscivano a penetrare. Uno dei mostri più orrendi e più abominevoli era a prova di frecce: allora l’aquila si librò alta nell’aria con una pietra bianca e rotonda e la lasciò cadere sul capo del mostro, uccidendolo all’istante. Il servigio reso da questa pietra fu tanto buono, che la pietra fu dichiarata sacra.

Molti giorni durarono i combattimenti, poi finalmente agli uccelli toccò la vittoria. Finita questa guerra, quantunque rimanessero alcune bestie malvagie, gli uccelli poterono prevalere nei consigli, e la luce fu introdotta. Il genere umano poté vivere e prosperare. L’aquila aveva condotto questa favorevole battaglia: per conseguenza, le sue penne furono portate dall’uomo come simbolo di saggezza, giustizia e potenza.

Fra i pochi esseri umani ancora vivi c’era una donna cui erano concessi molti figli, i quali però venivano sempre distrutti dalle bestie. Se con tutti i suoi sforzi la madre riusciva a evitare le altre belve, arrivava il drago stesso, che era astutissimo e assai malvagio, e le divorava i bambini. Dopo molti anni le nacque un figlio, generato dal temporale. Per lui essa scavò una profonda caverna, sbarrò l’ingresso di questa caverna e sul luogo accese un fuoco da campo. Questo fuoco teneva caldo il bambino e ne celava il nascondiglio. La madre tutti i giorni disfaceva il  fuoco e scendeva nella caverna dov’era il giaciglio del bimbo, per allattarlo; poi usciva e riaccendeva il fuoco del bivacco. Ripetutamente il drago venne a interrogarla, ma la madre soleva rispondergli: «Non ho più figli; tu me li hai divorati tutti». Quando il bambino fu più grande, non rimaneva continuamente nella caverna, poiché desiderava poter ogni tanto correre e giocare. Una volta il drago vide le sue orme. Questo rese perplesso il vecchio drago e lo fece arrabbiare, perché non riusciva a scoprire il nascondiglio del ragazzo; disse allora che avrebbe ammazzato la madre se non gli avesse rivelato il luogo in cui nascondeva il figlio. La povera madre ne fu turbatissima; non poteva rinunciare al suo bambino, ma, conoscendo la potenza e l’astuzia del drago, viveva costantemente nel terrore.

Poco tempo dopo, il ragazzo annunciò che desiderava andare a caccia. La madre non avrebbe voluto dargli il permesso e gli parlò del drago, dei lupi, dei serpenti. Ma il ragazzo disse: «Domani vado». Pregato dal ragazzo, suo zio (che era l’unico uomo vivente in quei tempi) gli fabbricò un piccolo arco e qualche freccia, e i due andarono il giorno seguente a caccia. Inseguirono il cervo su per i monti, e infine il ragazzo uccise un maschio. Lo zio gli insegnò a scuoiare il cervo e a cuocerne la carne. Arrostirono sul fuoco la parte posteriore della bestia, metà per il ragazzo e metà per lo zio. Quando la carne fu cotta, la misero a raffreddare sui cespugli. Proprio in quel momento apparve l’immensa forma del drago. Il bambino non si spaventò, ma lo zio fu talmente paralizzato dal terrore, che non parlò e non si mosse. Il drago prese la porzione di carne del ragazzo, e con questa si allontanò un poco. Mise la carne su un altro cespuglio e vi si accovacciò vicino. Poi disse: «Questo è il bambino che ho tanto cercato. Ragazzo mio, sei grasso e gustoso; quando avrò mangiato questa carne di cervo, ti divorerò». Il ragazzo rispose: «No, non mi mangerai, e non mangerai quella carne». Così mosse qualche passo verso il punto in cui stava il drago, e riportò la carne vicino al proprio sedile. Il drago disse: «Ammiro il tuo coraggio, ma sei sciocco: che cosa pensi di poter fare?», ma il ragazzo rispose: «Posso fare quanto basta per proteggermi, come puoi vedere». Allora il drago prese di nuovo la carne e il ragazzo gliela ritolse. In tutto il drago prese la carne quattro volte; il ragazzo, dopo aver riportato al suo posto la carne la quarta volta, gli disse: «Drago, vuoi combattere con me?» Il drago rispose: «Sì, nel modo che tu preferisci». Il ragazzo disse: «Mi metterò alla distanza di cento passi da te; potrai tirare quattro volte contro di me con il tuo arco e le tue frecce, purché poi tu prenda il mio posto e mi conceda quattro colpi». «Bene», disse il drago, «stai dritto.» Allora il drago afferrò l’arco, che era fatto di un grosso pino. Scelse quattro frecce dalla faretra; erano fabbricate con giovani alberelli di pino, e ogni freccia era lunga sei metri.

Prese lentamente la mira, ma proprio mentre la freccia scoccava dall’arco il ragazzo emise uno strano suono e saltò in aria. Immediatamente la freccia si spezzettò in mille frammenti; e il ragazzo fu visto in piedi in cima a uno scintillante arcobaleno proprio sul punto contro cui il drago aveva diretto il tiro. Di colpo l’arcobaleno scomparve e il ragazzo fu di nuovo in piedi nello stesso posto. Questo si ripeté quattro volte, poi il ragazzo disse: «Drago, stai qui, adesso tocca a me tirare». Il drago rispose: «Benissimo; le tue piccole frecce non possono trapassare la mia prima corazza di corno, e io ne ho altre tre… tendi pure il tuo arco». Il ragazzo scagliò una freccia, colpì il drago proprio sopra il cuore, e uno strato delle grosse squame cornee cadde al suolo. Il secondo tiro infranse un altro strato, il ,terzo un altro ancora, e il cuore del drago rimase esposto. Allora il drago tremò, ma non poté muoversi. Prima di lanciare la quarta freccia, il ragazzo disse: «Zio, tu sei irrigidito dalla paura e non ti sei mosso; vieni qui, altrimenti il drago ti cadrà addosso». Lo zio corse verso di lui. Allora il ragazzo scoccò la quarta freccia con mira sicura e trapassò il cuore del drago. Con un tremendo urlo il drago rotolò giù lungo il fianco della montagna, giù per quattro dirupi fino a un canyon sottostante. Immediatamente nubi temporalesche strisciarono sulle montagne, i fulmini diedero bagliori, il tuono rimbombò e la pioggia cadde a rovescio. Quando il nubifragio cessò, laggiù in fondo al canyon si poterono scorgere i frammenti dell’ enorme corpo del drago sparpagliati tra le rocce. Le ossa di quel drago si possono ancora vedere in quel posto.

Il nome di questo ragazzo era Apache. Usen gli insegnò a preparare le erbe medicinali, a cacciare, a combattere. Egli fu il primo capo degli Indiani e portò le penne dell’aquila come simbolo di giustizia, di saggezza, di potenza. A lui ed alla sua gente, quando fu creata, Usen diede dimora nelle terre d’occidente.

 

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